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Ma il Pd si può ancora definire un partito di sinistra?

Il presidente del Senato Grasso è stato solo l'ultimo a lasciare un partito sempre più slegato dai bisogni del paese reale e da quelle che dovrebbero essere idee di sinistra, come dimostrato, ad esempio, dal "Jobs Act" o dai decreti Minniti-Orlando.

Ma il Pd si può ancora definire un partito di sinistra? 2 Novembre 2017Lascia un commento

Sono nato nel 1982 a Roma, e sono sempre vissuto, e vivo tuttora, nel quartiere Balduina, a cui sono molto affezionato e che considero uno dei migliori della città, ma di cui, al tempo stesso, conosco pure i difetti e gli aspetti che andrebbero migliorati.

Il segretario del Pd Matteo Renzi ha concluso domenica a Portici la conferenza del suo partito, e, oltre a rivendicarne i successi, ha iniziato a guardare alle elezioni che si terranno in primavera e, seguendo anche i consigli di altri “big” del Pd, ha detto di non voler chiudere nè ad “un’alleanza al centro”, nè “a sinistra“, poiché “la legge elettorale approvata impone le coalizioni“, ma, al tempo stesso, ha ammesso la possibilità di una “grande coalizione” con il centrodestra, affermando: “Più voti prende il Pd, più lontane saranno le larghe intese”. Intanto, però, il partito guidato dall’ex “rottamatore” fiorentino, che lo scorso 14 ottobre ha festeggiato i dieci anni dalla nascita, sembra godere di pessima salute: giovedì scorso, infatti, è stato il presidente del Senato Pietro Grasso a lasciarlo, spiegando: “la fiducia sul Rosatellum è stata una sorta di violenza”. Altri personaggi noti del partito, fra cui in particolare l’ex segretario Pierluigi Bersani e l’ex premier Massimo D’Alema, vi erano già usciti a febbraio, a due mesi dal referendum del 4 dicembre 2016 sul quale Renzi tanto aveva puntato ma che, invece, aveva visto vincere il “no” alla sua riforma costituzionale, al punto da costringerlo, quasi, alle dimissioni da premier.

La frattura forse più grande, o di certo la più grave, sembra essere però quella fra il Pd e il paese reale, dimostrata dalle non poche contestazioni che lo stesso Renzi sta subendo nel suo viaggio per l’Italia (al punto che si è preferito non svelare le sue prossime tappe), dal calo nei sondaggi e dalla contemporanea crescita delle destre, dei populismi e, in generale, del malcontento, soprattutto fra i ceti più disagiati. Vi è però, ormai da qualche anno, anche una frattura tra questo partito e quelle che, in teoria, dovrebbero essere idee di sinistra, come si è visto con provvedimenti come il “Jobs Act”, che ha di fatto smantellato i diritti dei lavoratori, con lo stesso disegno di riforma costituzionale, che avrebbe potuto ridurre gli spazi di rappresentanza popolare, con i decreti Minniti-Orlando in materia di sicurezza ed immigrazione, con i quali, per alcuni versi, sembrava quasi si volesse dichiarare una “guerra ai poveri”, con il “codice di condotta” per le Ong che operano nel Mediterraneo e con gli accordi con i capitribù libici per non far partire i migranti dalle coste libiche, il che, spesso, purtroppo, equivale a trattenerli in prigioni simili a lager.

E’ stata varata, è vero, la legge sulle unioni civili, ma quella sullo “jus soli” è stata momentaneamente accantonata, e solo adesso si starebbe pensando, sembra, di approvarla ricorrendo al voto di fiducia, in modo che anche gli alleati di governo più riluttanti a tale provvedimento, come il leader del Nuovo Centrodestra Angelino Alfano (che aveva spiegato di non essere contrario nel merito, ma di ritenere che non è il momento per approvarlo) alla fine lo voterebbero. Verrebbe da dire, quindi, che nel Pd quasi ci si vergogna di avere idee più di sinistra, o, in questo caso, si preferisce rinunciarvi per non correre il rischio di essere “impopolari” e, quindi, di perdere magari voti. Sarebbe il caso, invece, che in tale partito si inizi a riflettere seriamente sull’identità che esso ha assunto o intende assumere, se, cioè, si intende iniziare a considerarsi un partito semplicemente di centro, magari anche tendente un pò a destra, che vuole quindi rappresentare più che altro gli interessi degli imprenditori e delle classi agiate, e che su tematiche delicate come quella dell’immigrazione è disposto ad assecondare, almeno in parte, alcune pulsioni “securitarie”, o se è disposto a compiere una seria autocritica sulle politiche messe in campo negli ultimi anni, e a schierarsi, quindi, nettamente al fianco delle categorie disagiate, recuperando, così, alcune idee più “di sinistra” che, forse, vi erano all’origine.

Compiere tale autocritica solo in vista delle elezioni politiche che si terranno in primavera appare però tardivo e poco credibile, come tardive e poco credibili sembrano certe aperture che vengono ora fatte a “sinistra” o alla costruzione di un’ipotetico “centrosinistra”. Alla sinistra del Pd, del resto, permane una certa frammentazione in partiti piccoli, che però, se riuscissero a creare un unico soggetto politico, come in parte si sta tentando di fare, potrebbero, forse, dare finalmente rappresentatività ai tanti che, oggi, si rifugiano nell’astensionismo, ma è chiaro che a tali partiti (o al nuovo soggetto che ne deriverà) non converrebbe granché allearsi con chi, come il Pd, ha mostrato spesso di avere idee divergenti. E’ chiaro che sarebbe riduttivo addossare l’intera responsabilità di questo “mutamento genetico” del partito all’attuale leadership di Matteo Renzi, perché tale processo, in parte, era già iniziato prima che questi ne divenisse il segretario, e soprattutto perché in pochi, ormai, sembrano volerlo contrastare seriamente, ma certamente egli lo ha notevolmente accelerato, anche perché, per alcuni suoi tratti quasi caratteriali, ha reso meno facile esprimere il dissenso nel Pd.

Sono nato nel 1982 a Roma, e sono sempre vissuto, e vivo tuttora, nel quartiere Balduina, a cui sono molto affezionato e che considero uno dei migliori della città, ma di cui, al tempo stesso, conosco pure i difetti e gli aspetti che andrebbero migliorati.

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